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Il suino nella storia

In copertina: L’ingresso degli animali nell’Arca – olio su tela del tardo Rinascimento, datato 1571 ca., attribuito alla bottega di Jacopo da Ponte, detto Jacopo Bassano, collocato a The Royal Collection London. Fra gli animali da salvare il maiale occupa uno dei primi posti.


Strana sorte, quella del porco. Insieme alle pecore e alle capre fu uno dei primi animali ad essere addomesticati dai popoli neolitici del Vicino Oriente antico. Grande produttore di carne e di grassi, era facile da allevare. C’è un’ambiguità, un’ambivalenza profonda nel porco, che non passava inosservata nel mondo classico e che si è mantenuta nella tradizioneoccidentale, dove l’assegnazione del nostro animale a sant’Antonio è forse frutto di una cristianizzazione dei suoi tratti più addomesticati. Una storia del porco nell’immaginario antico non sfugge a una labirintica rete di informazioni apparentemente incoerenti. Da una parte esso era oggetto di disprezzo, segno e metafora dell’abiezione e della bestialità, mentre, dall’altra, si inseriva a pieno diritto nella sfera del sacro come vittima sacrificiale, probabilmente già sin dall’epoca micenea. In Grecia immolato solennemente a Demetra, la Madre, dèa delle messi e dei Misteri che garantivano ai fedeli un destino privilegiato nell’Aldilà, il porco era l’animale-utero, come sembra indicare délphax, uno dei suoi nomi greci, espressione inevitabile e ostensiva, ma anche metaforica della riproduttività. E in alcune lingue indo-europee la scrofa è designata dal corrispondente del nostro “madre” (lat. mater, gr, méter), come nel polacco maciora, alternante tra madre e scrofa, e nel sardo mardi a fronte del snascrito sûs, che indica invece proprio la madre. Roma non si discostavadall’orizzonte agrari in cui la Grecia pare collocare il maiale e, assieme alla pecora e al bue, lo faceva rientrare nell’offerta tipica per la purifcazione dei campi, il suovetaurilia, in cui erano comprese le tre specie animali più importanti del regime sacrificale antico: un suino, sus, un ovino, ovis, un bovino, taurus. Egualmente era d’obbligo immolare a Cerere, dèa delle messi e delle plebi, una scrofa, la porca praecidanea, così chiamata perchè questa offerta doveva precedere la mietitura.

Affrescata nel I secolo dopo Cristo, la Villa dei Misteri offre alcune delle più straordinarie emozioni nella visita di Pompei. In una camera da letto, un pannello dipinto illustra in stile rapido ed efficace una scenetta di sacrificio campestre, con un malinconico e tondo maialino, decisamente poco convinto nell’avvicinarsi all’altare nonostante le incitazioni di un cupidino e il gesto rassicurante dell’uomo.

Scena di caccia nel Medioevo

Sus Oeconomicus

La presenza massiccia di aree incolte fu nell’alto Medioevo la caratteristica dominante del paesaggio. Boschi, pascoli, brughiere si susseguivano ovunque. Prosperava un tipo di foresta in cui la quercia dominava incontrastata, associandosi a frassini, carpini, cornioli, aceri, olmi. Le attività silvo-pastorali avevano allora un’importanza centrale; fra di esse, soprattutto l’allevamento brado dei maiali aveva un ruolo decisivo: nell’economia e nella mentalità del tempo, il suo rilievo era talmente decisivo che i boschi venivano, letteralmente ‘misurati’ in maiali. La loro superficie era cioè determinata – nel modo concreto

del tempo, con riferimento alle attitudini produttive dei vari tipi di terreno – in base al numero di maiali che vi si potevano allevare: questa era evidentemente ritenuta la loro funzione principale e, se essa mancava, il bosco veniva definito ‘infruttuoso’. Branchi di suini, a volte qualche decina di capi, scorazzavano nei boschi dell’Alto Medioevo, guidati dal porcaro e dal capo del gregge, il verro maggiore, che le leggi longobarde chiamavano sonorpair, quando comanda un gregge di almeno 30 capi; o dalla scrofa ducaria, munita di campanella, di cui parlavano altri testi dell’epoca. La sistematica frequentazione dei boschi da parte di porci e porcari provocava non di rado problemi di convivenza che le leggi si curavano di disciplinare. «Se due porcari si picchiano e si insultano, si risarciscano reciprocamente le botte o le ferite», prescrive, ad esempio, l’Editto del re Longobardo Rotari, nel VII secolo. Del resto il porcaro era un personaggio economicamente prezioso e socialmente apprezzato: lo stesso Editto, quando fissa la scala dei «prezzi» delle varie categorie dei servi (prezzi che dovevano essere pagati al padrone come risarcimento, nel caso venissero uccisi o feriti), ci fa vedere che, significativamente, il magister porcarius – il maestro e capo dei porcari – è quello che vale di più in assoluto, assai più degli altri pastori e dei contadini: solo l’artigiano specializzato «costa» quanto lui. Inoltre, per la dimestichezza che aveva con i terreni boschivi, il porcaro poteva essere un testimone competente e prezioso quando si trattava di precisare i confini delle terre o di dirimere una lite fra un proprietario e l’altro all’interno dei boschi. Il che accadeva non di rado, data l’importanza di queste aree nell’economia dell’epoca, Ma i porcari non erano solo professinisti del mestiere. In realtà tutti i contadini del tempo, chi più chi meno, erano dediti a quella attività: tutti avevano il loro gregge, grande o piccolo che fosse, e tutti a un certo momento dell’anno diventavano porcari, così come, in altri momenti, si facevano cacciatori o pescatori.


«Il porco è un buon riproduttore fino all’età di tre anni. I piccoli dei soggetti che superano tale età sono meno forti. Passata questa età il porco prende l’abitudine di accoppiarsi quando è sazio e non copre piùun’altra femmina; altrimenti l’accoppiamento è troppo breve e i nati troppi piccoli. Quanto alla scrofa, genera un ridotto numero di piccoli in occasione della prima gravidanza, ma già con la seconda è al culmine. Quando invecchia continua a generare alla stessa maniera, ma si accoppia con maggiore lentezza. A quindici anni cessa di essere riproduttiva ed è definitivamente vecchia. Se ben nutrita la scrofa si presta facilmente all’accoppiamento, tanto se è giovane quanto se è vecchia. Se ingrassa troppo quando è pregna, produce meno latte dopo il parto. I piccoli migliori sono quelli nati da genitori nel pieno delle forze per quel che riguarda l’età, e per quel che riguarda il periodo dell’anno, quelli nati al principio dell’inverno; d’estate invece nascono dei porcellini di qualità inferiore, piccoli, magri e flaccidi. Un maschio ben nutrito è in grado di accoppiarsi a qualunque ora del giorno e della notte, altrimenti ha l’abitudine di preferire il mattino per la copula. Invecchiando la fa con minore frequenza. Spesso ai porci quando la virilità viene meno per età o per debolezza e non riescono ad accoppiarsi rapidamente, la femmina stanca di stare in piedi, si stende e si accoppiano così, distesi l’uno accanto all’altra. La scrofa che sia in calore è stata fecondata soprattutto se abbassa le orecchie, altrimenti è nuovamente in calore.»

Aristotele (384-322 a.C.), Storia degli animali


Nell’Odissea Circe trasforma in maiali i compagni di Odisseo toccandoli con una rhabdos, termine che designa una verga liscia e flessibile e che nella trasposizione iconografica del mito trova riscontro nel lungo e sottile bastone tenuto in mano dalla dea su alcune raffigurazioni.


Economicamente importante per l’allevatore, del porco non si sprecava neppure una setola, come del resto accade tutt’ora. Secondo Catone poteva servire persino il suo sterco, dotato a quanto sembra di poteri taumaturgici qualora lo si applicasse sulle ferite dai morsi di serpente. «Se un serpente morde un bue o un qualunque altro quadrupede, tritura in poco più di un quarto di vino vecchio una tazza di nigella, quella che i medici chiamano smirnio; fai assumere il preparato attraverso le narici e spalma sul morso dello sterco di maiale. La stessa cosa, se è necessario, falla all’uomo.» 

Catone, L’Agricoltura, 161 a.C., Seun serpente morde un bue o un altro quadrupede.

Il Testamentum Porcelli

Tra ius e ius, ovvero tra il diritto e il sugo

La data di nascita dell’opera oscilla tra il 339 e il 402 d.C. e a quest’epoca tarda sembrano condurre anche le sue caratterostoche linguistiche. La lingua del Testamentum lascia trapelare che il suo ignoto autore rivela di possedere una conoscenza del repertorio terminologico giuridico tutt’altro che mediocre, un uso agile del lessico familiare del IV secolo d.C., una vivace fantasia che lo porta a inventare termini burleschi trasparentemente allusivi. Insomma una notevole padronanza dei mezzo linguistici da cui scaturisce in superficie una efficace parodia, sotto la quale, tuttavia, sembra nascondersi un qualcos’altro che deve essere fatto emergere.. Tra ius e ius, ovvero tra il diritto e il sugo, il Testamentum rivela infatti una rete di allusioni che renderebbe per lo meno riduttivo ogni tentativo di liquidarlo come una semplice parodia dei modelli giuridici, che appaiono invece e almeno intrecciati con tipici elementi favolistici. Comincia come testamento, continua prima come dialogo con toni processuali e poi come racconto, riprende e finisce come testamento. Non è un testo mitico, nè un testo religioso e dunque si debbono fare i conti con le intenzioni dell’autore, il quale a sua volta ambiva a una diffusione della sua opera. Una parodia limitata alle disposizioni testamentarie sarebbe riuscita di certo monotona e, pertanto, un risvolto satirico l’avrebbe resa più vivace e mordace, più accattivante e gradevole. Infatto, già la disposizione di un testamento allografo, ché il buon porcello afferma in apertura quoniam manu mea scribere non potui, scribendum dictavi, «poché non potevo scriverlo di mia mano, ne ho dettato il testo», si alterna con gli accenti inquisitori e giudiziali del cuoco, mentre la determoinazione di porcellum, che in latino designa il porcellino, assegnata al protagonista, entra in opposizione con l’età dichiarata, 999 anni, quasi un millennio. Si trascorre quindi ai veri e propri lasciti testamentari attraverso la formula tipica do lego dari, «so e lego», alle donazioni, dabo donabo, «darò e donerò», che sono una vera e propria spartizione del corpo del porcellum, per sfociare nella sottoscrizione del testamento da parte dei testimoni, che sono sette, come prevedeva il diritto romano nel caso di testamenti allografi. Il diritto e le gastronomia sono il frutto di una lettura superficiale del testo, che abbonda di forme grammaticali e lessicali piuttosto rare, talvolta fortemente oscure. Secondo la natura della parodia, sono frequenti le allusioni i doppi sensi, le metafore, spesso di inestricabile siginificato. Se mancassero questi elementi mordaci e comici, la parodia perderebbe gran parte del suo condimento provocante e non si potrebbe più comprendere perchè la sua lettura all’epoca scatenasse le più grasse risate.

Nel suo album del 2019, “Ballate per uomini e bestie”, undicesimo lavoro in studio, il cantautore Vinicio Capossela si rapporta con storia, letteratura, filosofia, religione, poesia, figurando quale prezioso menestrello contemporaneo. Come egli stesso ha dichiarato, «I protagonisti sono animali antropomorfizzati in una dimensione plurale e ricca di spunti e mezzi narrativi». Ebbene, all’interno di questa preziosa miscellanea spicca “La ballata del porco”, nella quale il maiale, animale simbolo della civiltà contadina, dopo una vita d’ingrasso mette in luce il tema del sacrificio: la creatura più prossima all’uomo, tanto negli organi interni, quanto nei nomi e negli aggettivi, fa testamento, continuando in tal modo a vivere con tutto il suo “corpo”, che è appunto anagramma di “porco”.

Eccone un estratto del Testamentum Porcelli e come i cantautore lo ha ‘aggiornato’ 16 secoli dopo:

«E il maiale viene afferrato dai servi il sedicesimo giorno delle calende di Candelora [potrebbe trattarsi della festa pagana dei Lupercalia poi cristianizzatasi e fissata da Giustiniano al 2 febbraio: in questo modo, il sedicesimo giorno precedente, ovvero il 17 gennaio, ben corrisponderebbe all’epoca di macellazione dei maiali], sotto il consolato dei consoli Tegame e Speziato, quando abbondano le verze. E quando egli vide che doveva ormai morire, implorò un’ora di tempo e chiese al cuoco di poter fare testamento. E così chiamò a sé i suoi parenti per poter lasciar loro le sue cibarie (…). Delle mie interiora donerò ai calzolai le setole, ai sordi le orecchie, a chi fa continuamente cause e parla troppo la lingua, ai bifolchi le budella, ai salsicciai i femori (…) ai bambini la vescica (…), ai corridori ed ai cacciatori i talloni, ai ladri le unghie. (…) Carissimi miei estimatori e preparatori, chiedo che con il mio corpo vi comportiate bene e che lo condiate di buoni condimenti, di mandorle, pepe e miele in modo che il nome mio sia lodato in eterno».

Così varia Vinicio, rendendo perfettamente il medesimo spirito e caricandolo di nuovi simbolismi: «Ma se è destino morire scannati voglio pure farvi beati e che non si butti via niente di una vita in sacrificio per voi (…). Il testamento del maiale lascia a tutti in parti uguali, il testamento del porco che a nessuno vuol fare torto (…). Le ossa le lascio a terra ma solo dopo che han fatto brodo, prima al ricco e poi a chi ha poco, mano mano che scema la carne, finché non ne rimane niente e fa da minestra per il pezzente. Così a tutti lascio in pegno questo mio corpo tondo, in vita disprezzato e immondo, a contrastare il regno del duo che regge il mondo (…): fame e miseria. E così sia».


Una stampa veneta del XVIII secolo esalta il “Trionfo del Carnevale”. Nell’immaginario popolare, sopra il corteo di maschere che inneggia all’opulenza e alla baldoria, troneggiano ripetuti riferimenti al maiale, vivo o debitamente e golosamente insaccato.

La Festa dei Fuochi

L’associazione tra l’eremita sant’Antonio e il porco si riflette nel calendario civile e liturgico che colloca il giorno di sant’Antonio Abate in una cruciale articolazione dell’anno contadino. Il 17 gennaio, festa del santo, l’accensione dei giganteschi falò, detti fuochi di Sant’Antonio, dà inizio al Carnevale, cioè al momento dell’anno caratterizzato più di ogni altro all’eccesso alimentare e sessuale. Il simbolo principe del Carnevale è appunto il porco che, in forma di salsicce e sanguinacci, ma anche in quella metaforica delle ‘porcherie’ consentite dal clima festivo, incarna nella maniera più completa i piaceri e gli appetiti di una voluptas insaziabile, certo temuta, ma al tempo stesso rigenerativa e vitale. E perciò da controllare ed emeandare, tanto è vero che appena spenti gli ultimi fuochi del Carnevale, l’eccesso festivo dà luogo al pentimento, inaugurato dal mercoledì delle Ceneri e seguito dall’austerità della Quaresima, raffigurata come una vecchiamagrissima e nerovestita. Dal sacrificio del maiale – che la tradizione popolare di molte religioni italiane chiama Nino, diminutivo di Antonio, con chiara allusione al santo – l’anno contadino trae dunque la linfa vitale per continuare, per riprodursi e rigenerarsi fino all’anno successivo.


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